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Quando il Covid-19 fa una breccia nell’Endocrinologia

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Introduzione

La recente diffusione a livello globale dell’infezione da SARS-Cov-2 ha messo in luce alcune criticità a livello organizzativo, soprattutto in ambito territoriale, del Sistema Sanitario Nazionale. I dati dell’OMS, aggiornati al 24 giugno 2020, indicano che nel mondo, a partire dalla prima segnalazione del 31 dicembre 2019, sono stati confermati 9.110.186 casi di COVID-19, per un totale di 473.061 vittime.

Solo in Italia, i casi confermati sono stati 238.833 e i morti 34.675, con una letalità maggiore nella fascia di popolazione più fragile, ovvero quella costituita dai soggetti anziani e, soprattutto, affetti da malattie croniche.

Durante il periodo della pandemia, anche l’endocrinologo, specialista ad elevata attività ambulatoriale, ha dovuto rispondere alla “chiamata alle armi” del Sistema Sanitario Nazionale. Durante il periodo di massima diffusione dell’infezione, infatti, tutte le attività intraospedaliere considerate “differibili” sono state sospese per poter reindirizzare le risorse disponibili a sostegno della situazione di emergenza. Tali misure, per quanto necessarie a tutelare la salute dei soggetti più fragili (tra cui quelli affetti da patologie croniche), in molti casi hanno reso impossibile garantire un’adeguata continuità delle cure e hanno imposto un rimodellamento di tutto il sistema organizzativo assistenziale.  Si è resa quindi necessaria la creazione di sistemi di telemedicina che potessero garantire una tempestiva comunicazione, anche se svolta in modo virtuale, tra il medico e il malato cronico. A sostegno dei pazienti affetti da patologie croniche in isolamento, inoltre, la letteratura anglosassone ha suggerito un modello definito “4E framework” (letteralmente, “struttura a 4E”), dove le 4 E stanno per Educate, Equip, Engage, Empower (ovvero Educare, Fornire, Impegnarsi, Assumere il controllo), ovvero una strategia mutuata dal mondo del business con la quale i grandi manager delle aziende spingono gli impiegati a prendere coscienza delle proprie risorse personali e a utilizzarle per affrontare le quotidiane sfide lavorative. Allo stesso modo, il paziente dovrebbe essere “educato” a gestire autonomamente la sua condizione, prevenendone le complicanze e riducendo il numero di accessi ospedalieri.

 

Diabete mellito

La Regione Marche, per permettere di gestire una patologia ad elevata prevalenza come il diabete mellito, ha fornito a tutte le strutture ambulatoriali e ospedaliere operanti sul territorio gli strumenti necessari al collegamento a distanza tra medici e pazienti, implementando le funzioni del sistema informatico già in uso, garantendo la possibilità di rilevare dati clinici e biochimici e di operare scelte terapeutiche tempestive. Questo è risultato particolarmente utile per i pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1, una patologia autoimmune che esordisce tipicamente durante l’infanzia e che necessita di terapia insulinica a vita. Per questi pazienti una valida opzione terapeutica è rappresentata dall’infusione continua di insulina sottocute tramite dispositivi detti “microinfusori”, meno traumatica dal punto di vista fisico e psicologico rispetto alla terapia iniettiva classica, ma che richiede un costante monitoraggio da parte del medico. Il microinfusore viene collegato sottocute tramite un piccolo catetere che eroga insulina in modo continuo, a velocità modulabile, mentre l’andamento della glicemia può essere rilevato da un sensore collegato ad esso ed è verificabile dal paziente in ogni momento (con una latenza di pochi minuti). Grazie alla possibilità, per il paziente, di caricare su internet i dati registrati dal microinfusore, il blocco degli accessi ambulatoriali non ha impedito ai pazienti trattati con microinfusore di continuare a ricevere assistenza e i controlli previsti sono stati tutti svolti, anche se a distanza. Questo si è tradotto, da un lato, in un sicuro beneficio per i pazienti diabetici, dal momento che il mantenimento di un corretto compenso glicemico, oltre che ridurre in maniera significativa l’incidenza di complicanze cardiovascolari, diminuisce la suscettibilità alle infezioni tipica degli stati iperglicemici e appare fondamentale nella prevenzione del contagio da COVID-19, e dall’altro in un miglioramento organizzativo della nostra struttura che non vedrà un aumento del carico di lavoro e un allungamento delle liste d’attesa per le prestazioni ambulatoriali.

Per quanto riguarda i pazienti ospedalizzati, il trattamento del diabete si avvale quasi esclusivamente della terapia insulinica, con diverse modalità di somministrazione, mirata ad evitare eccessive escursioni dei valori glicemici, che da un lato, soprattutto in corso di infezioni, si accompagnano a chetoacidosi o a sindrome iperosmolare, dall’altro ad aumentato rischio di complicanze e di mortalità cardiovascolare. In corso di infezione da COVID-19, è stato rilevato un netto aumento della mortalità nei soggetti affetti da patologie croniche, prima fra tutte il diabete, per cui risulta evidente come uno stretto controllo dei valori glicemici debba essere un obiettivo primario sia nell’attività ambulatoriale che ospedaliera.

 

Osteoporosi e ipovitaminosi D

Un’altra patologia cronica di notevole impatto sociale ed economico è l’osteoporosi, ovvero la riduzione progressiva della componente minerale dell’osso che si verifica all’aumentare dell’età e che in certi individui procede rapidamente, comportando un aumentato rischio di frattura con gravi conseguenze in termini di mortalità e disabilità. Benché l’osteoporosi non richieda interventi assistenziali tempestivi e la sua gestione diagnostico-terapeutica possa essere tranquillamente differita di qualche mese senza significative conseguenze cliniche, l’elevata prevalenza di malattia (si stima che in Italia quasi 5 milioni di persone ne siano colpite) e la necessità di accedere a farmaci ad uso esclusivamente ospedaliero (es. bifosfonati e.v.) ha creato la necessità di un contatto continuo tra medici e pazienti. È stato quindi proposto di creare un sistema di telemedicina diffuso su territorio in modo capillare (secondo il collaudato modello Hub and Spoke) che potesse garantire uno scambio continuo tra medici di strutture ospedaliere ad elevato livello assistenziale e medici di ospedali di rete nella gestione di pazienti a diverso grado di complessità, che possa continuare a lavorare anche in epoca post-pandemica. Nel frattempo, tramite contatto telefonico diretto, i pazienti in terapia con bifosfonati orali, denosumab e teriparatide sono stati invitati a non interrompere i trattamenti in atto.

Dato il suo effetto positivo sulla mineralizzazione ossea e sull’assorbimento intestinale di calcio, nei pazienti affetti da osteoporosi viene generalmente prescritta, a integrazione (o in sostituzione, nei casi meno gravi) di altre terapie farmacologiche, una supplementazione orale di vitamina D. Il ruolo della vitamina D nella risposta all’infezione da SARS-CoV-2 potrebbe essere duplice: la vitamina D, infatti, supporta la produzione di peptidi antimicrobici nell’epitelio respiratorio e potrebbe contribuire a ridurre la risposta infiammatoria sistemica all’infezione attraverso una up-regolazione del gene di ACE2 [12]. Questo da un lato conferma i risultati ottenuti da una metanalisi di 25 studi randomizzati controllati comprendenti 11321 pazienti condotta nel 2017, che evidenziava come una adeguata supplementazione di vitamina D avesse effetti protettivi contro le infezioni respiratorie acute, in particolar modo nei soggetti severamente carenti [13], dall’altro supporta i risultati di uno studio irlandese  che ha evidenziato come la mortalità per COVID-19 sia significativamente associata ai livelli di vitamina D in differenti popolazioni europee [14]. Una recente revisione sistematica della letteratura e una successiva metanalisi hanno portato a un generale consenso al trattamento, che risulta sicuro e privo di effetti collaterali.  

 

Insufficienza surrenalica

Una patologia sicuramente più rara, con un prevalenza stimata in Italia di 93-280 casi per milione di abitanti (per un totale di circa 15.000-20.000 persone affette), ma comunque gravata da importanti conseguenze sia in acuto che in cronico è l’insufficienza surrenalica, una condizione clinica caratterizzata da una ridotta o assente produzione di glucocorticoidi (e mineralocorticoidi) come risultato di processi patologici del surrene (forme primitive) o del sistema ipotalamo-ipofisi (forme secondarie). Poiché gli ormoni surrenalici hanno un ruolo cruciale nel mantenimento dell’omeostasi energetica ed idrosalina dell’individuo, nella risposta allo stress e nella modulazione del sistema immunitario, tale condizione è grave e potenzialmente letale. I pazienti con insufficienza surrenalica hanno tassi di mortalità e morbidità superiori rispetto alla popolazione generale, con notevoli alterazioni in termini di qualità della vita e percezione soggettiva dello stato di salute. Inoltre, nonostante la personalizzazione del regime terapeutico e l’applicazione di misure educative finalizzate alla prevenzione della crisi surrenalica (fatale nel 6% dei casi), questa si manifesta in circa il 10% dei pazienti nell’arco di due anni. La crisi surrenalica risulta per lo più scatenata da infezioni intercorrenti ed altre situazioni di stress fisico ed emotivo, tra le quali sicuramente va annoverata la pandemia da SARS-CoV-2.

Alla luce di queste premesse, la Task Force della Società Italiana di Endocrinologia ha prodotto una Expert Opinion per la gestione del trattamento steroideo nei pazienti con insufficienza surrenalica colpiti da COVID-19 nelle varie fasi di malattia. Tuttavia, al momento non esistono dati relativi all’impatto che la pandemia sta avendo sui pazienti con insufficienza surrenalica, sia per quanto concerne prevalenza, manifestazioni ed outcome della malattia COVID-19, che in termini di stress psicofisico indotto dalla consapevolezza dei pazienti di essere maggiormente suscettibili all’infezione ed a rischio di crisi surrenalica in un contesto di isolamento sociale e di incertezza e preoccupazione per il futuro.

Dai risultati di uno studio cross-sectional, condotto su una popolazione di 121 pazienti con diagnosi di insufficienza surrenalica regolarmente seguiti presso la Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOU UNIVPM - Ospedali Riuniti di Ancona, è emerso che nel periodo Febbraio-Aprile 2020 si è verificato un solo caso di COVID-19 (prevalenza 0,8%) in una donna di 48 anni che ha immediatamente aumentato la dose di steroide ed è guarita senza apparenti conseguenze. Non si sono verificate crisi surrenaliche né accessi in pronto soccorso, anche se il 15% dei pazienti ha avuto la necessità di aumentare la dose di steroide confermando l’importanza dell’educazione sanitaria alla prevenzione della crisi surrenalica e la centralità del rapporto medico-paziente. Il questionario “CORTI-COVID” appositamente sviluppato ha evidenziato come i pazienti con insufficienza surrenalica primitiva siano principalmente preoccupati per il proprio stato di salute e per la propria fragilità, in particolare i giovani, mentre nei pazienti con insufficienza ipotalamo-ipofisaria prevale la preoccupazione per la crisi economica e lavorativa pandemia-relata. I pazienti in trattamento sostitutivo steroideo per l’insufficienza surrenalica non sembrano quindi aver avuto maggior rischio di contagio ed hanno trascorso il periodo di isolamento/distanziamento sociale aumentando la dose di steroide in un limitato numero di casi.

 

Tumori ipofisari

Oltre ad essere genericamente portatori di patologie croniche, e, pertanto, sulla base di modelli statistici, soggetti a un aumentato rischio di complicanze in seguito ad infezione da COVID-19, i pazienti affetti da tumori ipofisari presentano, spesso, specifiche comorbidità associate a una prognosi peggiore. Ad esempio, basta pensare al diabete mellito tipo 2 e all’ipertensione arteriosa, complicanze comuni sia all’acromegalia che alla Malattia di Cushing, o all’obesità e alla maggiore suscettibilità alle infezioni secondarie che accompagnano quest’ultima condizione. Purtroppo, proprio nel periodo della pandemia, la necessità di un controllo stretto di malattia si è scontrata con la forte limitazione dell’accesso ai trattamenti. A questo proposito, le linee guida della Società Europea di Endocrinologia raccomandano per tutti i pazienti affetti da tumori ipofisari di nuovo riscontro una valutazione biochimica di minima volta ad escludere una compromissione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, rimandando successive valutazioni alla fase post-pandemica. Per i pazienti con acromegalia di nuova diagnosi, invece, viene consigliato di posticipare eventuali trattamenti non farmacologici, iniziando una terapia medica con analoghi della somatostatina solo in caso di sintomatologia severa. Per tutti i tumori, a meno che non siano presenti complicanze meritevoli di intervento urgente (es. compromissione del visus, crescita tumorale importante, apoplessia ipofisaria), la raccomandazione è quella di posticipare eventuali radiotrattamenti di 3-6 mesi, mentre la chirurgia ipofisaria transnasale, dato l’elevato rischio infettivo correlato all’aerosolizzazione delle secrezioni, è da considerarsi assolutamente controindicata durante tutto il periodo pandemico. Anche la risonanza magnetica (RM), strumento imprescindibile per lo studio dell’ipofisi, si accompagna a un elevato rischio infettivo per il paziente e per il personale, per cui dovrebbe essere evitata e sostituita, laddove possibile, dalla valutazione clinica del campo visivo e dalla tomografia computerizzata (TC). Per quanto riguarda i pazienti con tumori iperfunzionanti dell’ipofisi, se ben controllati o in remissione, sarebbe opportuno posticipare i controlli clinici o svolgerli in modalità virtuale, mentre in caso di patologia non controllata l’obiettivo primario resta quello di prevenire lo sviluppo delle comorbidità ad alto rischio di complicanze, adottando strategie terapeutiche che possano minimizzare la necessità di interventi medici. Ad esempio, la Società Europea di Endocrinologia propone, nei pazienti affetti da Malattia di Cushing con severo ipercortisolismo, una modalità di trattamento definita “block-and-replace”, utilizzando inibitori della steroidogensi (privilegiando il metirapone sul ketoconazolo per il minor numero di interazioni farmacologiche) a dosaggio tale da indurre una forma iatrogena di insufficienza surrenalica, trattata a sua volta con corticosteroidi a dosaggio sostitutivo, ma che luce di quanto detto sull’insufficienza surrenalica, non è scevra dal rischio di complicazioni. Qualora non si riesca a ottenere un completo controllo dell’ipercortisolismo, le complicanze quali diabete mellito e ipertensione andrebbero trattate in modo energico, evitando in via precauzionale inibitori dell’angiotensina e ACE-inibitori per l’effetto poco chiaro sull’enzima angiotensin converting enzyme 2 (ACE2), sebbene non vi siano chiare indicazioni a interrompere un trattamento già in atto. Inoltre, l’infezione da SARS-Cov-2 si caratterizza per una compromissione vascolare generalizzata associata ad estesi fenomeni vasculitici che si sommano allo stato di ipercoagulabilità tipico della sindrome di Cushing: è fondamentale, pertanto, che i pazienti che presentino entrambe queste condizioni siano immediatamente sottoposti a profilassi anti-trombotica con farmaci anticoagulanti. Oltre all’aumentata suscettibilità alla polmonite da COVID-19, l’immunosoppressione della sindrome di Cushing può esporre a rischio di polmonite da Pneumocystis Jirovecii, complicanza comune anche all’infezione da HIV, che, oltre a entrare in diagnosi differenziale con la polmonite da SARS-Cov-2, è gravata da una mortalità che può raggiungere il 50%. Nonostante le premesse, nella nostra esperienza clinica non abbiamo osservato casi di COVID-19 nei pazienti affetti da tumori ipofisari, che potrebbe testimoniare un’adeguata consapevolezza del proprio stato di malattia da parte dei nostri pazienti.

 

Malattie della tiroide

Analogamente a quanto detto sulla sindrome di Cushing, un’altra situazione clinica per la quale la Società Europea di Endocrinologia propone uno schema di trattamento “block-and-replace” è l’ipertiroidismo: dato che questa condizione, soprattutto quando sostenuta da un fenomeno autoimmune (Malattia di Basedow), può accompagnarsi a massivo rilascio di ormoni tiroidei in caso di eventi infettivi acuti, può essere trattata con farmaci antitiroidei ad alto dosaggio associati successivamente a levotiroxina a scopo sostitutivo. Tale strategia avrebbe il vantaggio di ridurre il numero di controlli necessari a raggiungere l’eutiroidismo senza aumentare il rischio di infezioni, in quanto l’effetto immunosoppressivo del metimazolo ad alte dosi non sembra aumentare la suscettibilità a COVID-19. Tuttavia rimane il rischio, possibile soprattutto durante il primo mese di trattamento, di sviluppare un episodio di neutropenia febbrile, che imporrebbe una valutazione urgente dell’emocromo e una diagnosi differenziale con l’infezione da COVID-19. Diverso discorso, invece, per gli immunosoppressori utilizzati per il trattamento dell’oftalmopatia associata a Malattia di Basedow (glucocorticoidi, farmaci biologici…), che, esponendo i pazienti a un elevato rischio infettivo, impone una stretta osservanza delle norme di isolamento sociale. Per lo stesso motivo, dovrebbero limitare i contatti anche i pazienti affetti da tumore tiroideo avanzato in trattamento con farmaci chemioterapici o inibitori tirosin-kinasici, mentre la diagnostica delle formazioni nodulari tiroidee di nuovo riscontro potrebbe essere ragionevolmente posticipata (a meno che non sussistano fondati sospetti di tumori midollari o di neoformazioni passibili di trattamento urgente). Nella nostra esperienza, come da linee guida, gli approfondimenti ecografici e gli esami agoaspirati sono stati limitati solo ai casi con segni clinici fortemente suggestivi per lesioni infiltranti (sintomi a carico delle vie aeree/digestive, paralisi del nervo laringeo ricorrente…).

 

Alterazioni idro-elettrolitiche

L’iposodiemia rappresenta il disordine dell’equilibrio idro-elettrolitico di più frequente riscontro nei pazienti ospedalizzati, interessando fino al 30% di essi. In particolare, la prevalenza dell’iposodiemia nei pazienti con polmonite di varia eziologia raggiunge il 25-30% e la sua presenza è associata ad una maggior severità di malattia ed a prognosi infausta. L’iposodiemia determina, infatti, maggior accesso alle unità di terapia intensiva, maggior richiesta di ventilazione meccanica, tempi di degenza più lunghi sia in ambiente intensivo che in regime di cure ordinarie, nonché maggior rischio di recidiva nei guariti. In molti casi, inoltre, un’alterazione della sodiemia si sviluppa durante la degenza complicando ulteriormente la prognosi del paziente.

Il meccanismo fisiopatologico alla base dello sviluppo di iposodiemia nelle polmoniti non è ben chiaro, anche se nella maggior parte dei casi è implicata una sindrome da inappropriata antidiuresi (SIAD) dove la secrezione di vasopressina appare sostenuta da stimoli non osmotici rappresentati in primis da ipossia e produzione di citochine infiammatorie, come l’interleuchina 6 (IL-6). È proprio IL-6 ad esercitare un ruolo chiave durante la “tempesta citochinica” che negli individui maggiormente predisposti determina l’evoluzione della polmonite da SARS-CoV-2 verso le forme, estremamente aggressive e mortali, di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS). Sebbene i dati della letteratura siano ancora scarsi, il riscontro di iponatremia non sembra essere così comune in corso di infezione da SARS-Cov-2 e questo dato risulta ancora più sorprendente se si considera che nei pazienti infettati da SARS-Cov-1 la prevalenza di iponatremia abbia raggiunto il 60%. A ogni modo, alterazioni dell’equilibrio del sodio rimangono comunque frequenti in caso di COVID-19 e sono costituite soprattutto dall’ipernatremia associata a ipovolemia, probabilmente correlata a un massiccio utilizzo di diuretici e alle perdite insensibili legate all’iperventilazione e all’iperpiressia. Tale condizione appare gravata da un elevato rischio di trombosi (che andrebbe prevenuta con eparina a basso peso molecolare a dosaggio profilattico) e la sua gestione è resa ancora più complicata dal rischio di ARDS conseguente alla reidratazione, che renderebbe ragionevole l’utilizzo di soluzioni ipotoniche anziché isotoniche, con la possibilità di infondere un volume minore di liquidi.

Diversamente da altre condizioni critiche, non è ancora stato chiarito il significato prognostico dell’ipernatremia in corso di COVID-19 e se essa si associ a maggiore mortalità. Per questo motivo, la Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOU UNIVPM – Ospedali Riuniti di Ancona ha condotto uno studio di prevalenza in una coorte di 122 pazienti ospedalizzati per COVID-19, valutando lo stato della sodiemia sia al momento del ricovero che durante la degenza. Contrariamente ai dati della letteratura, i risultati preliminari dello studio hanno mostrato che l’iposodiemia è un’alterazione elettrolitica non trascurabile nei pazienti COVID-19, interessando fino al 18% degli ospedalizzati e riscontrandosi al momento della morte in 2/19 decessi. Un ulteriore dato emerso è quello relativo alla presenza di ipernatriemia, che si riscontra nel 7% degli ospedalizzati, ma complica oltre il 26% dei decessi. Il corretto inquadramento e la gestione multidisciplinare dei disordini idro-elettrolitici in corso di COVID-19 sono di cruciale importanza prognostica, poiché una maggiore variabilità intra-individuale della sodiemia è risultata associata alla necessità di ricovero in unità di terapia intensiva e semintensiva, nonché a prolungamento significativo della degenza.

 

 

Stato nutrizionale

I pazienti affetti da COVID-19, soprattutto quelli che sviluppano forme severe di malattia, presentano pressoché costantemente anoressia, calo ponderale e ridotti livelli di albumina. Lo stato catabolico è indotto dall’eccessiva risposta citochinica dell’organismo all’infezione da SARS-CoV-2, come dimostrato da studi condotti su modelli animali dove il calo ponderale si associa ad aumento della PCR ed a rialzo significativo di TNF-α e IFN-δ; a ciò si aggiungono anche gli effetti di allettamento e ventilazione meccanica prolungati.

Sarcopenia e cachessia sono cause maggiori di mortalità e disabilità e dominano il quadro clinico del paziente COVID-19 nella fase di recupero post-critica. In questa fase è necessario porre un’attenzione peculiare al percorso riabilitativo e nutrizionale del paziente: vi sono infatti evidenze di outcome migliori nei pazienti che durante l’ospedalizzazione ricevono fisioterapia e terapia nutrizionale ed è stato dimostrato come nel COVID-19 i benefici siano tanto più significativi quanto più l’applicazione di tali approcci risulta prolungata.

L’aumento della richiesta energetica necessario a fronteggiare l’infezione determina un rischio aumentato di malnutrizione: si raccomanda quindi di affiancare alla riabilitazione fisica un adeguato apporto nutrizionale (per os, enterale, parenterale a seconda delle necessità cliniche), stimato sulle 25–30 kcal/kg di peso corporeo con 1.5 g proteine/kg/die. Nei pazienti ospedalizzati è necessario arricchire ulteriormente lo schema nutrizionale con 2-3 integrazioni/die di composti ad elevato contenuto proteico (>18 g proteine/integrazione) e, specialmente negli anziani e nelle aree ad elevata prevalenza di ipovitaminosi D, con supplementi di colecalciferolo.

La presa in carico multidisciplinare dei pazienti COVID-19 nella loro fase di recupero post-critica non può quindi prescindere da una valutazione del loro stato endocrino e metabolico: nel periodo di cure intensive essi sviluppano infatti alterazioni a carico degli assi tiroideo, somatotropo e gonadico nonché carenze nutrizionali che potrebbero rallentare la ripresa dalla fase catabolica ed aggravare i quadri di sarcopenia e cachessia. A differenza dei pazienti ambulatoriali, che in accordo con le linee guida europee, in caso di difficoltà logistiche (difficoltà nel reperire i farmaci, necessità di rinnovare prescrizioni e piani terapeutici…), potrebbero sospendere eventuali trattamenti sostitutivi con GH o testosterone senza significative conseguenze cliniche, i pazienti ospedalizzati, specialmente quelli ricoverati nei reparti di terapia intensiva, potrebbero trarre giovamento dall’effetto anabolizzante di questi ormoni, già sfruttato con risultati positivi nei casi di cachessia correlata a malattie croniche come l’AIDS. A tal proposito, la Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOU UNIVPM – Ospedali Riuniti di Ancona svolge attività di consulenza per garantire la strutturazione di un percorso riabilitativo personalizzato.

 

Prospettive future

Al momento attuale, le nostre conoscenze sulle conseguenze a lungo termine dell’infezione da SARS-Cov-2 sul sistema endocrino risultano molto limitate e si basano principalmente su congetture che derivano dall’esperienza della SARS del 2003. In quell’anno, infatti, in Cina, si è rapidamente diffusa nella provincia di Guandong un’epidemia che ha colpito 8000 persone e ha causato 774 morti, il cui agente patogeno responsabile, SARS-Cov-1, condivide numerosi aspetti genetici, clinici e fisiopatologici con l’attuale SARS-Cov-2. Entrambi, in primo luogo, sfruttano ACE2 come porta d’ingresso nelle cellule dell’ospite, con importanti conseguenze: l’espressione di ACE2 sulle cellule pancreatiche e il riscontro di SARS-Cov-1 su campioni di tessuto pancreatico suggerisce un possibile futuro effetto diabetogeno dell’infezione; restano da chiarire il ruolo dell’ACE2 testicolare, che in un primo tempo si era  ipotizzato permettesse l’ingresso del virus nel testicolo,  e gli effetti dell’infezione sulle capacità riproduttive dei soggetti di sesso maschile infettati, dal momento che studi autoptici su soggetti morti per SARS hanno mostrato un danno tissutale suggestivo per orchite conseguente, probabilmente, a una disregolazione del sistema immunitario indotta da SARS-Cov-1. Resta del tutto sconosciuto, ma confermato istologicamente dalla riduzione del numero di cellule follicolari a livello tiroideo e di cellule secernenti TSH a livello ipofisario, il meccanismo con cui SARS-Cov-1 alteri la funzionalità del sistema ipotalamo-ipofisi-tiroide, con possibile rischio di ipotiroidismo. In più, la disregolazione del sistema immunitario indotta da SARS-Cov-2 sembra in grado di fornire l’innesco a fenomeni autoimmuni a livello di vari organi, primo fra tutti la tiroide. Durante il periodo pandemico, abbiamo osservato 2 casi di insufficienza surrenalica primitiva a distanza di meno di una settimana l’uno dall’altro, in assenza di sintomi respiratori da COVID-19, nei quali resta da definire se un possibile contatto con SARS-Cov-2 possa avere avuto un ruolo nell’innesco del meccanismo autoimmune. Non ci sono, però, sufficienti dati per poter affermare che questo fenomeno sia indicativo di un aumento delle patologie endocrine autoimmuni.

Una strategia di mimetismo molecolare del tutto particolare che usa SARS-Cov-1 per alterare la risposta immunitaria dell’ospite è quella di esprimere sequenze aminoacidiche molto simili a quelle dell’ACTH, inducendo nell’organismo che infetta una produzione di autoanticorpi anti-ACTH che altera la funzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, da un lato, prevenendo la modulazione e il contenimento della risposta infiammatoria, dall’altro riducendo la risposta dell’ipofisi allo stress, che si traduce in un quadro di insufficienza surrenalica relativa. Partendo da questo presupposto, una precoce somministrazione di steroidi potrebbe trovare una solida giustificazione fisiopatologica, come documentato da recenti trial clinici (es. desametasone). È stato inoltre ipotizzato che due dei sintomi caratteristici dell’infezione da SARS-Cov-2, ovvero l’ageusia e l’anosmia, siano riconducibili a un danno ipotalamico indotto dall’infezione, e che un successivo coinvolgimento dell’ipofisi possa determinare lo sviluppo graduale di un’insufficienza surrenalica dopo la guarigione dall’infezione.

 

Concludendo, l’infezione da SARS-Cov-2 presenta importanti interazioni con il sistema endocrino e i pazienti affetti da endocrinopatie preesistenti, in caso di COVID-19, potrebbero più facilmente andare incontro a insufficienza respiratoria acuta ed exitus. Risultano quindi necessarie una stretta collaborazione tra strutture ospedaliere e specialisti ambulatoriali in modo da garantire la continuità dell’assistenza ai pazienti cronici nel rispetto del distanziamento sociale necessario al contenimento dell’infezione e, nei pazienti ospedalizzati con COVID-19, una gestione multidisciplinare delle manifestazioni endocrino-metaboliche che possono complicare il decorso della degenza nonché il periodo di riabilitazione.

Giancarlo Balercia, Giorgio Arnaldi, Gianmaria Salvio, Marianna Martino, Melissa Cutini

 

 

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Note biografiche

 

Giancarlo Balercia

Professore universitario e Direttore della Clinica di Endocrinologia dell’Università Politecnica delle MarcheOspedali Riuniti di Ancona, svolge attività scientifica e clinica in campo endocrinologico e andrologico.  L’Unità di Andrologia aggregata alla Cl. di Endocrinologia è inoltre Training Center dell’European Academy of Andrology, di cui Giancarlo Balercia è direttore. È membro effettivo dell’European Academy of Andrology, della Società Italiana di Endocrinologia e della Società Italiana di Andrologia Medica (dal 1998). È stato Coordinatore delle Sezione Marche della Società Italiana di Andrologia Medica e Medicina della Sessualità. È stato Consigliere nel Consiglio Direttivo della Società Italiana di Andrologia Medica. Ha ottenuto il riconoscimento di  “Academician” da parte  dell’European Academy of Andrology. Dal 2001  organizza annualmente  incontri nazionali ed internazionali  su tematiche di Andrologia Medica ed Endocrinologia. Insegna Endocrinologia presso l’Università Politecnica delle Marche. Giancarlo Balercia è autore di oltre 350 lavori scientifici su riviste nazionali ed internazionali e contributi scientifici a convegni nazionali ed internazionali.

Giorgio Arnaldi

Professore associato di Endocrinologia presso l’Università Politecnica delle Marche. Medico endocrinologo, lavora in Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona. Coordinatore del Club del Surrene della Società Italiana di Endocrinologia (SIE). Fa parte delle principali società scientifiche italiane ed internazionali di settore. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche ed è stato invitato in qualità di relatore a molti convegni e congressi nazionali ed internazionali. 

Gianmaria Salvio

Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Politecnica delle Marche nel 2013 e specializzato in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università degli Studi di Padova nel 2019. Ha conseguito due certificazioni come “Ecografista del tratto genitale maschile”, la prima nel 2016 a Roma e la seconda a Firenze nel 2019. Membro dell’Accademia Europea di Andrologia (EAA), della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e della Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità (SIAMS). Attualmente svolge attività di ricerca come dottorando dell'Università Politecnica delle Marche presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona”.

Marianna Martino

Dirigente Medico presso la Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti" di Ancona. Si è laureata in Medicina e Chirurgia all’Università Politecnica delle Marche nel 2014 e specializzata in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università degli Studi di Padova nel 2019. Membro della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e dell'Associazione Medici Endocrinologi (AME), svolge attività di ricerca come dottoranda presso l'Università Politecnica delle Marche. I principali ambiti di interesse sono le malattie dell'ipofisi e del surrene ed i disturbi dell'equilibrio idrosalino. 

Melissa Cutini

Laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università Politecnica delle Marche nel 2015. Attualmente frequenta la scuola di specializzazione in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università degli Studi di Padova con frequenza presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona". Si occupa di Auxologia e di Andrologia medica ed ha conseguito due certificazioni (europea ed italiana) di ecografia andrologica. È membro della Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità (SIAMS), dell’Accademia Europea di Andrologia (EAA), della Società Italiana di Endocrinologia (SIE). 

 

 

 

 

 

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Patrizia Trimboli

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